Mondiali Sudafrica 2010, conosciamo gli 8 ct rimasti in lizza

ULTIMO AGGIORNAMENTO 17:05

JOHANNESBURG – Ci siamo. Tra venerdì e sabato il Mondiale sudafricano sceglie le quattro semifinaliste. Ecco un ritratto degli otto ct che guidano le squadre ancora in lizza, da quelli famosi a livello mondiale, come Maradona o Dunga, a quelli meno conosciuti, come il serbo Rajevac che ha portato il Ghana ai quarti.
 
VAN MARWIJK (Olanda)
Quando Van Basten fallì agli Europei 2008, sconfitto dalla Russia del suo connazionale giramondo Hiddink, la federcalcio olandese aveva due opzioni: prendere proprio Hiddink o abbassare il profilo. Bert Van Marwijk è un olandese pragmatico, duro, antipatico. Prima di diventare ct allenava il Feyenoord credendo nei giovani. Di giovani è piena la sua Olanda, per i giovani (Elia, Afellay) ha chiuso da tempo con i senatori (Seedorf e Van Nistelrooy). Salvo due: suo genero Van Bommel che gli fa da metronomo a centrocampo e Van Bronckhorst che è il capitano (ma forse anche l’anello debole della squadra). “Ci sta vicino e ci ascolta”, dicono di lui. Si è qualificato ai mondiali vincendo otto partite su otto. E’ autorevole ma non fa sconti a nessuno. Pare abbia rimbrottato Sneijder per qualche distrazione in allenamento.

DUNGA (Brasile)
Per il grosso del tifo nazionale è il classico ex-campione che nessun brasiliano vorrebbe mai alla guida della Seleçao: il pragmatismo, quest’idea di puntare alla perfezione passando per canali altamente impopolari, la costruzione della difesa prima dell’attacco, quel sentire il richiamo dei “piedi fatati” ma non troppo: tutte virtù che la maggioranza scambia per difetti, quasi tare genetiche. 47 anni, portato in Italia dalla Fiorentina che lo gira al Pisa di Anconetani, a Dunga sta riuscendo di innescare l’amore persino tra le frange estreme degli appassionati: poca samba, molta sostanza. Il volto del suo Brasile non si ricava sovrapponendo le gesta dei fenomeni, ma incrociando i “ruvidi” valori di Gilberto Silva e Ramires. E il “suo” centravanti, Luis Fabiano, è il talento più lontano da ciò che in Brasile si intende per talento: Pelè.  

TABAREZ (Uruguay)
Uno che l’Italia se lo ricorda così: “Una persona garbata ma non adatta”. Quel po’ che ebbe fra le mani il Milan Oscar Washington Tabarez Silva non provocò certo sconquassi. Berlusconi aveva messo sotto contratto il “maestro” perché colpito dal 9° posto in classifica del suo Cagliari. Ma una sconfitta interna contro il Piacenza, all’11ª giornata, ne segnò il destino. 63 anni, la fama di uno che studia. Era ct dell’Uruguay anche nel ’90, quando perse da Schillaci e Serena agli ottavi. Negli anni è cambiato. Più spregiudicato, diciamo zemaniano, una volta. Molto più realista oggi. Del passato conserva soltanto il 4-3-3, un vangelo numerico, che però pretende applicato con rigorosa attenzione difensiva (ci pensano Arevalo e i due Alvari, Fernandez o Pereira). L’Uruguay difende in sette con la promessa di innescare i tre delanteri, Suarez, Forlan e Cavani. Se non si allunga, può essere micidiale.

RAJEVAC (Ghana)
56 anni, lo chiamano “la corrente che dà luce alle stelle nere”. Serbo, Milovan Rajevac guida le Black Stars dal 2008 e prima si era mai alzato da una panchina serba (una breve apparizione anche su quella della Stella Rossa). Quest’anno in Coppa d’Africa ha raggiunto la finale perdendo dall’organizzatissimo Egitto con in campo l’ossatura della nazionale U-20 campione del mondo. Non avendo Essien, ormai perenne infortunato, è stato costretto a reinventare psicologicamente la sua squadra partendo da un concetto: “Niente aspettative, solo motivazioni”. Appiah lo considera un genio: “Tatticamente ci ha insegnato tutto”. Per la prima volta i ghanesi erano “costretti” a guardare tutti gli errori in dvd, le partite degli avversari, a velocità normale e al ralenti. “Ora sanno come fare in ogni momento del match”. Rajevac ha regalato “metodo e passione”. “Evito di raccontare ai miei ragazzi la mia emozione: se mi vedono che tremo si spaventano”. Ma lo sanno.

MARADONA (Argentina)
Oltre a guidare i suoi, scelti non senza qualche sacrificio, preferendo Veron a Cambiasso, portandosi in valigia persino i 36 anni di muscoli stanchi e ossa ammaccate di Martin Palermo, cui è riconoscente per quel gol nella tempesta (contro il Perù) dopo il quale si lasciò andare alla scivolata di “panza”, Diego deve anche respingere le aggressioni verbali del mondo intero. E per questo bisogna riconoscergli grande merito: a 50 anni ormai, come lui stesso ha ammesso, sa come frenare i propri istinti e non mandare a quel paese pubblicamente chi lo considera, pubblicamente, più un ciarlatano che un allenatore (da Platini a Pelè). Guida uno squadrone offensivo: ha deciso di privilegiare Higuain su Milito e Tevez su suo genero Aguero. Non aveva gran scelta sugli esterni bassi dopo aver rinunciato al jolly anziano (Zanetti). A lungo si era fidato di Papa e Jonas. Ora punta su Otamendi e Heinze.

LOEW (Germania)
L’unico ct delle nazionali importanti a sopravvivere all’Europeo 2008 (in finale). Era il vice di Klinsmann, si è reinventato leader della sua nazionale con un coraggio enorme, fra i dubbi dell’opinione pubblica. Ma sapete com’è la Germania del calcio. C’è sempre. Anche nei periodi meno luminosi trova uno Schwenisteiger che la trascina. Joachim Loew si predispone a un mondiale silenzioso. All’ultimo gli viene a mancare anche Ballack. Immediate contromisure: ed è qui che il ct fa la differenza, struttura una squadra in cui tutti corrono, attaccano, difendono. Mette in campo Mueller e Ozil dietro Klose e Podolski. Per la fatica chiede il fritto a Khedira, 23 anni, che prima del mondiale aveva giocato solo cinque volte in nazionale. Un colpo di genio. Ballack non troverebbe più posto: rispetto ai suoi sostituiti viaggerebbe ad un altro ritmo… 

MARTINO (Paraguay)
Un argentino in più. Quando giocava negli Newell’s Old Boys fece da chioccia a Batistuta e Balbo. E’ uno che passa per accorto, pensieroso, prudente. “Le fortune di una nazionale cominciano dal coach”, dice il suo centrale di difesa Alcaraz. Nel Paraguay di Gerardo Martino, 48 anni, ci sono lavoratori dell’occulto calcistico, come Riveros, il brutto Ortigoza, Victor Caceres. Prende la nazionale nel 2007 sostituendo Annibal Ruiz perché nel frattempo in Paraguay (dov’era arrivato nel 2002) si distingue vincendo sulla panchina di Libertad e Cerro Porteno. Si presenta con un 5-1 all’Ecuador. Professa la religione dell’umiltà e della compostezza tattica. I suoi terzini sono antichi, raramente scendono come moderni incursori. “Facciamo al storia di questo paese…”. Martino sa che c’è una sola direzione: aspettando chiunque.

DEL BOSQUE (Spagna)
Aragones vince l’Europeo e si allontana per andare a fallire nel Fenerbahce. Chi sulla panchina spagnola? Si fa anche il nome di Quique. Ma la federazione sa con chi ha a che fare. Con un club più che con una nazionale di stampo classico. Allora meglio una figura che un po’ ricordi Aragones. Un “padre” più che un allenatore. Un ct silenzioso, autorevole il giusto. Del Bosque è perfetto. Ha esperienza (ha vinto col Real), non ha velleità di carriera. Deve solo gestire la qualità di un gruppo unico, formato da ragazzi capaci di sentirsi a casa soltanto con la palla ai piedi. Ha un’unica piccola (grande) grana: Torres. Non è in condizione ma lui si ostina a dargli fiducia perché è ragionevole supporre che, con quelle qualità, prima o poi il Niño sia destinato a sbloccarsi. Ma quando è entrato contro il Portogallo, ha fatto di più Llorente in venti minuti che Torres in quattro partite. A quale dei suoi figli darà la prossima chance, il “padre”?

Fonte: La Repubblica

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